Il quadro della Gioconda, che certamente ha un suo fascino particolare, non può e non deve essere ammirato solo nell’affollata Sala del Louvre tra i mille turisti che, con incessante frenesia, lo fotografano da tutte le angolature per avere, almeno, un cimelio da esibire, al ritorno dalla loro vacanza, agli amici rimasti a casa. Osservando il dipinto con più attenzione senza la luce dei riflettori, quasi in religioso silenzio, si noterà che, al fascino del ritratto, si potrebbe aggiungere quello del paesaggio. Sullo sfondo, tra i monti e le acque nel sinuoso scorrere dei fiumi, appare il profilo di un ponte, sfocato in prospettiva, come se emergesse tra i vapori di una lieve bruma dopo l’umidità della notte, seguita a un giorno di intensa pioggia. Secondo la storica dell’arte Carla Glori sarebbe Il Ponte del Diavolo o Ponte Gobbo sul Trebbia, nella Valle di Bobbio: costruito, secondo una leggenda, in una sola notte dal demonio il quale avrebbe pattuito, in cambio della sua opera, l’anima del viaggiatore che per primo lo avrebbe percorso. Il diavolo, però, al mattino si trovò beffato perché San Colombano, prima che arrivasse qualche mattiniero e ramingo viaggiatore, fece passare un cagnolino.
Questa leggenda, sebbene alcuni critici abbiano messo in dubbio l’accostamento tra il Ponte del Diavolo e quello dipinto da Leonardo da Vinci, resta interessante dal momento che mette in risalto la sacralità dell’acqua nell’antichità. I fiumi considerati delle divinità, dividevano due territori, delimitati dalla natura, per cui attraversarli o addirittura collegarli con dei ponti costituiva un atto di sacrilegio: la trasgressione di un tabù, che doveva essere, in qualche modo, espiata con un sacrificio umano, sostituito, nel tempo, da un semplice rituale con recitazione di formule magiche ed esposizioni di simulacri lignei in sostituzione delle vittime immolate per soffocamento. Non a caso, nell’antica Roma, l’architetto, a cui era dato il compito di costruire un ponte, doveva possedere soprattutto un carisma religioso tant’è che ancora oggi, quando il linguaggio, oltre ad essere un semplice codice di comunicazione e comprensione, ha assunto un carattere performativo come formula contrattuale, il titolo di pontefice (costruttore di ponte da pontem facere) si riferisce al Papa. Superare un corso d’acqua, dunque, era ritenuto un atto sacrilego per cui si racconta che i romani per costruire il grandioso ponte (ponte Delal o ponte di Alessandro) che, oggi, attraversa il Tigri presso Zakhu, villaggio dell’Iran, abbiano sacrificato una vergine seppellendola sotto la chiave di volta dell’arcata centrale. Solo in questo modo, il ponte, importante via di comunicazione tra la provincia della Mesopotamia e l’Assiria, che era sempre crollato nei vari tentavi della sua costruzione, si è potuto mantenere solido fino ai nostri giorni.
Secondo un’altra leggenda le mani del muratore, che costruì il ponte, furono amputate per assicurare che la grandiosa costruzione rimanesse unica al mondo. La sacralità dell’acqua non conosce confini di spazio né di tempo. Una leggenda aborigena dell’Australia, che riguarda il ruscello sacro Ntyarlkarle Tyaneme ai margini di una città chiamata Alice Spring, tramanda che Il suo letto fu creato al Tempo dei Sogni dal passaggio di divinità metà uomini e metà bruchi. Nel 1983 quando il governo decise di costruirci sopra una strada, i lavori furono interrotti per continui incidenti e fu necessario deviare il tracciato della la strada per i continui cedimenti della sottostante struttura geologica. Secondo gli aborigeni le frane erano causate dagli spiriti che vivevano nel fiume e si ribellavano alla cementificazione.
Concludiamo con una leggenda di casa nostra, che riguarda una contrada denominata Salto del Pecoraio (presso il fiume Simeto, nel territorio di Adrano, dove si trova Il Ponte dei Saraceni inserito dal quotidiano la Repubblica tra i 30 ponti più belli dell’Italia) secondo la quale un pastore innamorato saltava dall’una all’altra sponda per recarsi dalla sua amata.