95047.it La Piana di Catania è stata lo scenario di molte novelle di Giovanni Verga, ma anche d’alcune mie vicende personali.
Intanto è proprio lì che mio padre, quando non era impegnato nella raccolta degli agrumi, come molti altri braccianti agricoli andava a lavorare per lunghi periodi quale addetto alla rimonda(tura) o potatura delle piante da frutto, ingaggiato da vari proprietari di terreni. Il suo era un lavoro che durava dieci o più ore al giorno, soggetto alle intemperie, in estate gravato dalla pesantezza della calura e talora rischioso, come successe al personaggio Janu della novella verghiana Nedda, il quale cadde da un’alta cima d’albero e morì.
Nei primi anni, per tale lavoro, egli partiva il lunedì mattina prima dell’alba, percorreva a piedi tutta la strada da fare e poi pernottava su qualche giaciglio quasi tutta la settimana, rientrando a casa sempre a piedi il sabato sera per poi ripartire il lunedì mattina. Qualche volta, ma raramente, il rientro avveniva anche il mercoledì sera e la settimana veniva suddivisa in due parti. Però c’erano alcuni lavoratori che si fermavano alla Piana per interi mesi e tornavano a casa propria in rare occasioni come Natale e Pasqua.
Quando doveva trasportare della roba, poiché non abbiamo mai posseduto una cavalcatura egli se n’andava spingendo la bicicletta di mio fratello, ma soltanto per caricarvi la roba stessa, senza montare in sella, dato che non sapeva andare in bicicletta. Successivamente, quando fu istituito il relativo servizio, egli se n’andava in autobus o a bordo dell’automobile di qualche parente o conoscente.
Negli ultimi tempi egli si dedicò esclusivamente a coltivare il piccolo agrumeto di proprietà di mia mamma in contrada Pericello, per inoltrarsi nel quale si doveva attraversare un fosso camminando in fila indiana su una stretta tavola da muratore che oscillava ad ogni passo, procurandomi ogni volta il terrore di precipitare nel sottostante corso d’acqua. Lì, come in molta parte della Piana, prima che vi fosse impiantato l’agrumeto c’erano a rotazione colture di cereali, legumi e cotone; ed è lì che mia mamma mi conduceva talvolta. Nell’estate del 1943, quando avevo nove anni, pochi giorni prima dei bombardamenti alleati, io ero proprio lì; e, mentre mia mamma raccoglieva il cotone, osservavo i cannoni dell’adiacente aeroporto militare di Gerbini che venivano ruotati in varie direzioni, quasi a scrutare minacciosamente il cielo e l’orizzonte: e, quando essi venivano puntati in direzione della nostra casupola, io mi ci rifugiavo dentro impaurito. Infatti, poco dopo, nella Piana si scatenò l’inferno, come testimoniano ancora i cimiteri di guerra e le varie stele.
Tornai a Gerbini alcuni anni dopo la guerra per visitare l’agrumeto d’un parente, impiantato in quello ch’era stato l’aeroporto.
Accanto al fiume Simeto c’è la contrada Fata, in una casupola della quale (che serviva come deposito d’attrezzi e prodotti agricoli) alloggiammo io e la mia famiglia per oltre un mese, a cavallo fra Settembre e Ottobre dello stesso 1943, per sfuggire ad una temuta ritorsione dei tedeschi in seguito all’armistizio dell’8 Settembre e per attendere che fosse riparata la casa avuta in affitto e danneggiata dai bombardamenti, a cui scampammo miracolosamente e in conseguenza dei quali eravamo sfollati prima nella casupola d’una mia zia nel feudo Ardizzone (due giorni), poi in una grotta sotterranea nella contrada Porrazzo, sulle pendici dell’Etna (venti giorni), e infine — dopo l’ingresso degli alleati — a casa di mia nonna (poco più d’un mese).
A pochi chilometri da Gerbini e quindi dalla contrada Pericello si trova il villaggio di Sferro, nella cui stazione ferroviaria visse da bambino il poeta Salvatore Quasimodo, in onore del quale ora è stata costituita e intitolata una biblioteca ad iniziativa del benemerito cultore di tradizioni locali Pippo Virgillito. Nel 1951 fui condotto nella chiesa di Sferro dal rev. Giovanni Parisi, che vi andava a celebrare la messa festiva dopo averla celebrata nella sua chiesa della Madonna della Scala. Il percorso era lungo e difficoltoso a causa dei ripetuti e violenti sobbalzi dell’automobile presa a noleggio e guidata dal suo proprietario su strade costellate da profonde e fangose buche, ma la breve permanenza lì era gratificante sia per la messa celebrata da quel compianto sacerdote e servita da me (infatti lo scopo della mia presenza era quello di servire la messa) sia per il generale clima di serenità che vi si respirava e che scaturiva dall’ambiente naturale e dalla gente semplice e devota.
Infine non potrò mai dimenticare l’attraversamento della Piana che nel 1968-69 facevo quotidianamente con una “500” dell’epoca per recarmi da Paternò ad insegnare a Palagonia (km 100 al giorno fra andata e ritorno), spesso accompagnando mio padre nei pressi del Pericello e riprendendolo al ritorno, e quello che in altre varie occasioni facevo con familiari ed amici per andare a visitare famose località della Sicilia.